
di VINCENZO COLI
Da un premier impegnato a metter mano in questo incasinatissimo Paese (un lavoraccio, diciamolo) non si possono pretendere idee a 360 gradi su tutto, risolutive e pure originali, diproduzione propria. Tante e buone che nemmeno Roosevelt, nemmeno Churchill, nemmeno De Gaulle, per dire tre statisti coi controcosi. Bravi assemblatori di buone intuizioni altrui, prese a prestito e in qualche caso senza nemmeno pagare i diritti d'autore. Erano leader perché decidevano senza tirarla in lungo, per questo sono passati alla storia.
Non sappiamo se passerà alla storia anche Matteo Renzi, pure lui ispirato dal pensiero dei suoi guru, affatto misteriosi. Nomi che a qualcuno piacciono, in altridestano inquietudine se non allarme, più a sinistra che a destra, ma tant'è: per l'economia l'israeliano Itzhak Yoram Gutgeld, senior partner e direttore di McKinsey, una delle più famose società di consulenza al mondo; per la comunicazione Giorgio Gori, produttore cinematografico e televisivo e già direttore di Canale 5; per i problemi del lavoro il giuslavorista Pietro Ichino; per l'enogastronomia Oscar Farinetti, patron di Eataly e amico (e finanziatore) di lunga data; per la cultura ancora nessuno, che si sappia, e viste le condizioni del patrimonio artistico e archeologico nazionale, sarà bene trovare al più presto qualcuno capace di consigliare il presidente.
Intanto fa piacere che l'ex sindaco di Firenze vanti tra i suoi mentori un esperto di grandi filiere alimentari. Sembra che Farinetti abbia suggerito a Renzi il sistema per aiutare l'export a passare da 5 a 7,5 miliardi di fatturato annuo: una campagna pubblicitaria mondiale sul Made in Italy, non limitata alle eccellenze da mangiare e da bere, ma estesa alla moda, all'auto, ai beni di lusso. Sembra di vederli i due amici, seduti a tavola mentre contano le figurine dei grandi marchi da impegnare come testimonial.
Celo, manca, manca, celo. Montezemolo e Marchionne, molto ammirati dall'inquilino di palazzo Chigi, Dolce e Gabbana, Armani, Della Valle. E poi? Ci sarebbero Bulgari, Fiorucci, Valentino, Gucci, Pomellato, Mila Schon, Fendi, Loro Piana... Orgoglio d'Italia. Ma anche no. Se li sono comprati tutti, francesi, svizzeri, americani, russi, inglesi, cinesi, coreani, inglesi, arabi del Qatar e del Dubai. E a voler sottilizzare, tra la Fiat e la Chrysler non s'è capito chi ha mangiato chi, per cui ci penseremmo due volte prima di piantare il tricolore sul Lingotto di Torino.
Insomma, il made in Italy, delocalizzazioni permettendo, si continuerà pure a fare nel Belpaese, ma i dividendi li conteranno gli altri, negli uffici della City, a Wall Street, in qualche metropoli asiatica. Alla fine, colpite e affondate le ammiraglie dell'eleganza e del lusso, sulla rotta del successo mondiale navigheranno spediti i meravigliosi incrociatori della buona tavola italiana: la miniera del caseario nazionale da Galbani a Invernizzi a Locatelli, i panettoni Motta, la pasta Buitoni, la triade dell'olio Carapelli, Sasso e Bertolli, il doppio brodo Star, gli spumanti Gancia, il riso Scotti, gli cioccolatini Perugina, lo Stock 84 e i biscottini Plasmon, le birre Peroni, Moretti e Dreher, la bresaola Rigamonti. Ehm, peggio mi sento. Un anno dopo l'altro, tutta 'sta roba se lo sono scofanata gli americani, i francesi, i russi - ancora! - gli spagnoli. Gli spagnoli? Ma non stavano peggio di noi, gli spagnoli?
Mangia italiano, eat Italy, e arricchirai lo stranger. Ogni giorno un'etichetta nazionale cambia bandiera, c'è rimasto giusto il lampredotto di casa sua, del supereroe Matteo. La situazione è grave, urge un intervento immediato. Sollecitare lui, che ha il culto marinettiano e un po' incosciente del bel gesto futurista, tipo guidare robot vendicatori fulminei e tonanti per abbattere i pachidermi della conservazione, è come invitare la lepre a correre. In Italia si può fare. Ma riuscirà il premier a battere in velocità gli gnomi della finanza che ad ogni acquisizione fanno festa dalle parti di Zurigo?